sabato 6 giugno 2015

Architettura ai tempi dei Selfie




President Obama's Selfies at Nelson Mandela's Memorial
Anno 2014: La società contemporanea è invasa dalle immagini, si trovano ovunque, nei supermercati, nelle stazioni della metropolitana, negli smartphone, persino nei luoghi di culto. Le immagini confondono, la mente a fatica riesce a comprendere la differenza tra l'immagine e il reale. Il reale talvolta diventa addirittura l'immagine del reale.




Epoca nella quale la comunicazione è diventata più veloce del tempo, i fatti quotidiani mentre avvengono sono già notizia, a volte si cerca quasi di anticipare il fatto con la notizia o con l'immagine di quello che ancora non è successo ma a breve sarà, e sarà la sua immagine più che l'avvenimento reale. Epoca nella quale la persona è portata a valorizzare, o meglio a s-valorizzare se stessa con quello che viene chiamato Selfie, parola che deriva dall'antico e da sempre utilizzato, a volte in modo creativo, self portrait. 


Francesca Woodman, Self Portrait


Renzo Piano, the shard, Londra

Epoca nella quale anche l'architettura risente della cultura dei Selfie. L'architetto nel corso degli ultimi decenni ha cambiato il modo di progettare e di porsi rispetto alla società contemporanea, società che è sempre stata alla ricerca di un architetto in grado di dare un senso alle esigenze non tanto della persona quanto dell'immagine della persona inserita nella realtà contemporanea.

Epoca nella quale si perde l'essenza dell'abitare, della casa, si perdono i principi fondamentali dell'architettura, quegli archetipi rossiani tanto amati dall'ultimo architetto postmoderno dell'ultimo millennio. 




Epoca nella quale nascono le Archistar, figure molto più simili a delle star del sistema economico, figure che tendono a costruire architetture autoreferenziali, figure che non creano un nuovo spazio, modificano i profili delle città ponendo al centro della discussione non tanto la società e le esigenze della stessa ma il mero valore estetico della propria opera che sarà pronta ad ergersi come simbolo e come nuovo strumento di identificazione.



Epoca nella quale l'architetto è come se stesse condividendo dei selfie, proprio come si è soliti fare nei social network, costruendo architetture che non sono altro che l'immagine riprodotta di se stesso e, di conseguenza, la sua auto-svalorizzazione.

giovedì 26 dicembre 2013

Sulle piazze vuote


 dall'Agorà alla piazza contemporanea


Piazza del Liberty, Milano, 2013
Un interessante tema sul quale è necessario fornire un approfondimento è il tema della piazza. Partendo dal presupposto che la piazza come agorà nasce come luogo di incontro, luogo di vita politica e sociale già dall'antica società greca. Superfluo ricordare come l'agorà fosse al tempo il luogo più importante della città, il luogo dove si svolgeva la vita della città, quel luogo era l'essenza della città.


Ultimamente, frequentando luoghi e analizzando nuove sistemazioni di piazze urbane ho notato una particolare attenzione nella loro progettazione. Una comune particolarità riguarda il fatto di lasciare parecchio spazio vuoto all'interno della città, quasi come se si volesse dare aria, quasi come si volesse creare uno spazio, come nell'antica agorà dove i grattacieli e gli edifici monumentali hanno la funzione di quinte per il palcoscenico teatrale della vita cittadina.


Le piazze vengono lasciate vuote, all'interno di esse è presente solo la vita cittadina, differentemente da progettazioni che possiamo associare al periodo rinascimentale, le nuove piazze urbane spesso non vengono dotate di elemento centrale, quale esso possa essere una fontana o un obelisco o anche un monumento. La nuova progettazione non prevede simile elemento catalizzatore, la piazza viene lasciata vuota, un enorme spazio al servizio della cittadinanza e non solo, un enorme spazio vuoto che spesso viene utilizzato solamente come punto di passaggio all'interno di una città troppo frequentemente interessata al proprio mondo virtuale rispetto a quello che potrebbe essere visto come un nuovo mondo sociale.

mercoledì 11 dicembre 2013

Il cubo di Aldo Rossi


Cimitero di San Cataldo
Modena 1971-76
 

Vista del cubo
Il cubo di Aldo Rossi può sembrare una casa abbandonata, un edificio a forma di cubo completamente cavo all'interno. La forma è  molto regolare, con la scansione delle finestrelle e i quattro lati completamente uguali. Vi si può entrare da ogni lato e da ogni punto. All'interno di esso si trovano gli ossari del cimitero, tutti regolarmente depositati in piccole celle quadrate, numerate e una di fianco all'altra. Una casa non abitata, o meglio abitata dalle ossa dei defunti, una casa imponente, tant'è che risulta essere la parte più interessante e particolare dell'intero complesso.


vignetta satirica, Adolf Loos
A vederla da uno dei blocchi laterali del cimitero può ricordare un'immagine, la famosa vignetta rappresentante Adolf Loos, nel quale l'architetto si interrogava sull'ombra lasciata da un tombino sull'asfalto. Lo spazio di Aldo Rossi è composto da elementi base, il cubo, il triangolo, le figure che sono la matrice della geometria più elementare vengono utilizzate e diventano magistralmente archetipi e punti fondamentali della sua architettura. Questo utilizzo degli elementi è parte insostituibile di quello che più comunemente viene denominato "citazionismo postmoderno" e funge da costante in ogni suo disegno architettonico.


il cubo visto dall'alto
Di notevole impatto anche la luce, soprattutto in relazione con la geometria delle forme, nell'imponente colonnato dell'ingresso scandisce la presenza delle colonne, come se fosse parte integrante dell'architettura. Il vuoto, lo spazio lasciato tra un elemento e l'altro è indispensabile condizione per la realizzazione dell'opera. La luce diventa sostanza, dove passa la luce crea l'ombra che fornisce essenza allo spazio. 
 

Un luogo etereo, nel quale si può sentire la pace della vita e della morte, la pace dell'architettura nel suo gesto più sacro che è quello del custodire l'anima dell'uomo.





il servizio fotografico:






domenica 24 novembre 2013

Sull'estetica dell'impossibile


Nel 1939 durante la costruzione della Casa sulla cascata Frank Lloyd Wright per convincere l'impresario costruttore a smontare i casseri, dovette posizionarsi proprio sotto la terrazza più grande mentre gli operai toglievano i casseri e i puntelli. (fonte - Wikipedia)

Nel corso dell'ultimo secolo le tecniche costruttive e l'utilizzo di calcoli strutturali ormai così dettagliati da non dover mettere in dubbio la realizzazione degli stessi ha portato ad una sorta di perdita di quel brivido di adrenalina nel costruire l'impossibile.

Filip Dujardin
Interessante l'opera del fotografo Filip Dujardin: una raccolta di collage fotografici progettati con l’unico obiettivo di creare edifici impossibili, costruzioni realistiche frutto dell’immaginazione del fotografo e nate dalla combinazione di elementi esistenti. (fonte - il Post).

Lasciando per un attimo da parte queste opere di collage e di astrazione fotografica, l'uomo, ha sempre cercato di sfidare l'impossibile. L'architetto/ingegnere strutturale cerca di costruire dove non si è ancora riusciti a farlo, in modi nei quali ancora nessuno è riuscito a farlo. E' un po' come l'evoluzione della scienza, in tutti i campi si cerca sempre di andare oltre, di stupire, di crea l'irrealizzabile. Ma tutto ciò che è impossibile rimane tale fin quando non si riesce a scoprire come farlo diventare possibile.

Forse ora come ora ci si sorprende meno per certe opere perché si possono considerare fattibili, oppure semplicemente la nostra immaginazione di società di porta a pensare che tutto sia possibile, che l'uomo sia ormai arrivato al punto di pensare che alcune cose sono realizzabili o comunque lo saranno a breve. 
 
Ladovskij, Progetto per un ristorante montano, 1922
Un movimento che dal mio punto di visto fu molto importante per lo sviluppo dell'architettura moderna e che fu un po' il precursore di questa idea di architetture impossibili è il cosiddetto costruttivismo russo. (fonte - I maestri del dopoguerra). Siamo nel 1922 quando Ladovskij progetta il suo ristorante sospeso nel vuoto, un 'opera che non mostrerebbe oggi alcun problema di realizzazione.

sabato 16 novembre 2013

Pollock e gli irascibili


La mostra allestita dal comune di Milano all'interno del ciclo "autunno americano" devo ammettere che è stata un po' una delusione. Non tanto per le opere presenti, che possono dare spunti per riflessioni importanti, quanto per il rapporto qualità/prezzo. Undici euro di prezzo intero/nove e cinquanta il ridotto per una sola opera principale di Pollock mi sembra veramente eccessivo, anche per un appassionato del genere.

Ma veniamo alla mostra: il titolo è "Pollock e gli irascibili", ovviamente non ci si aspetta solo Pollock, ma qualcosa in più non avrebbe sfigurato. Di opere di Pollock in realtà ce ne sono 8/9, non ricordo il numero preciso, il problema è che la maggior parte sono schizzi o comunque tele molto piccole, si presume spunti preparatori per opere più imponenti.

Pollock è un pittore che va apprezzato nel grande formato. A mio avviso, un quadretto di 15cmx15cm purtroppo non rende, ricordiamoci che lui era solito dipingere le proprie tele per terra, grandi opere, con il colore che colava direttamente dal barattolo, geniale quanto crea una nuova visione dell'arte, quando distrugge tutto ciò che era rappresentativo creando una nuova visione della pittura.

Jackson Pollock, numero 27, 1950
  
Franz Kline, Mahoning
Degna di nota è anche l'opera di Franz Kline, con il suo utilizzo del bianco e nero, soprattutto nell'opera Mahoning.

"A volte la gente pensa che io prenda una tela bianca e ci dipinga sopra un segno nero, non è vero. Dipingo il bianco così come dipingo il nero, e il bianco è altrettanto importante" (Franz Kline) 
  
Da citare anche Helen Frankenthaler, William De Kooning, Barnett Newman, Lee Krasner e, ovviamente, Mark Rothko.

"un quadro non riguarda un'esperienza: è un'esperienza" (Mark Rothko)

giovedì 7 novembre 2013

Omaggio a Gabriele Basilico

"Ma basta la presenza di un uomo a ridare all'architettura il valore di sfondo, a dare al vuoto il senso drammatico di un'assenza,mentre l'assenza dell'uomo toglie al vuoto la dimensione d'angoscia e fa del vuoto quello che veramente è. Questo perché il vuoto riempie se stesso e diventa soggetto in sé. Non penso di fotografare il vuoto nel senso di una mancanza di presenza, ma fotografo il vuoto come protagonista di se stesso, con tutto il suo lirismo, con tutta la sua forza, con tutta la sua umanizzante capacità di comunicazione, perché il vuoto nell'architettura è parte integrante, persino strutturale nel suo essere."

Interessante lettura all'interno del pensiero e dell'evoluzione del fotografo Gabriele Basilico, uno dei più importanti rappresentanti della realtà architettonica e paesaggistica dell'ultimo secolo.

Le Touquet, 1985
Milano, 1978-80



Parigi, 1997

giovedì 31 ottobre 2013

23 settembre 2013 - Stazione Mediopadana
Un'architettura irreale, dove il senso della realtà 
è svanito a fronte della ricerca di una tecnologia 
sempre più avanzata, uno spazio dove anche le 
persone che lo vivono e lo utilizzano non sembrano vere.



Calatrava è un architetto che ci ha abituato nel corso della sua carriera a rendersi particolarmente riconoscibile all'interno del paesaggio urbano nel quale realizza le sue opere di ingegneria e/o architettura. Le sue opere sono sempre distinguibili per l'utilizzo di forti elementi di carattere architettonico e di carattere ingegneristico.
Ne sono un esempio molto significativo l'uso forzato e quasi avveniristico del bianco, volto a cercare di creare un ambiente etereo, un uso del colore e dello spazio per certi aspetti freddo e distaccato da quella che potrebbe essere considerata una realtà di scarna di perfezioni, sporca di colori e di spazio-spazzatura considerando le interazioni e le ibridazioni di materia e urban-landscape contemporaneo.
Ulteriore esempio ugualmente significativo la sua incredibile attenzione per il risalto che viene costantemente dato alla struttura, un messaggio di natura ingegneristica, il quale può essere considerato quasi un richiamo a quella corrente di pensiero che parte dalle opere di ingegneria strutturale a cavallo tra la fine dell'800 e i primi del 900 fino ad arrivare al razionalismo strutturale delle opere di Guimard, Horta e Berlage per confluire in un più contemporaneo utilizzo della struttura in qualità di forma come ad esempio nell'opera di Piano a Parigi (centro Pompidou) o anche nell'opera di Vittoriano Viganò a Milano nella sede centrale della facoltà di Architettura (Politecnico di Milano).

Analizziamo a questo punto l'intervento di Calatrava per la stazione dell'alta velocità a Reggio Emilia. La stazione nasce nel cuore della pianura padana, in un luogo particolarmente scarno di urbanizzazione, il paesaggio circostante è caratterizzato da lunghe distese di campi e piccole e non molto alte costruzioni disperse all'interno del landscape. Questa ambientazione crea particolare risalto ad ogni opera di notevole interesse. Il bianco delle curve sinuose della stazione e dell'enorme volta del ponte che avvolge l'autostrada sono perfettamente riconoscibili e, anche ad un occhio profano, non rimangono inosservate.

Il ponte che collega l'uscita dell'autostrada con la viabilità della zona e, di conseguenza anche la stazione, è una classica opera dell'architetto, nella quale viene messa in mostra tutta la sua abilità nel dare risalto ad una struttura non particolarmente articolata ma notevole per realizzazione tecnica. I tiranti utilizzati a sostegno della struttura a volta sono un eccellente esempio di utilizzo dell'estetica della struttura. Essi assolvono il ruolo di struttura e allo stesso tempo sono la componente architettonica ed estetica del progetto.

Arrivati alla stazione ci si immerge in un ambiente futuristico. L'utilizzo del bianco in maniera estenuante evoca uno spazio quasi irreale, la struttura sembra una stazione aliena sbarcata sulla terra. L'interazione col paesaggio è praticamente nulla, il distacco creato dall'opera architettonica crea una sorta di realtà nella realtà. Un modus operandi probabilmente voluto dall'architetto ma allo stesso tempo una ennesima conferma di quello che ormai è diventato l'utilizzo dell'architettura nell'epoca in cui viviamo e cioè una continua competizione portata all'affermazione delle archistar nella loro dissacrante riformulazione e ricomposizione del paesaggio nel quale viviamo.


L'interno è abbastanza semplice, tutto si svolge attorno ad una hall che gioca il ruolo classico di spazio centrale. Da questo luogo partono i due corpi ascensori che portano alla banchina dei treni, mentre le scale mobili sono realizzate lungo la carreggiata. Ma proprio questo luogo evoca le sensazioni più particolari. Le luci sono diffuse, le vetrate fanno entrare la luce non in modo diretto essendo coperte dalla struttura della parte superiore e quello che si percepisce è uno spazio freddo, quasi spaziale, uno spazio che sembra esattamente quello che siamo soliti vedere quando ci vengono illustrati i rendering di un progetto. Potrebbe essere questa l'architettura 2.0? Un'architettura irreale, dove il senso della realtà è svanito per lasciare spazio alla ricerca di una tecnologia sempre più avanzata, uno spazio dove anche le persone che lo vivono e lo utilizzano non sembrano vere. L'unica cosa vera di questo spazio sembra essere il rumore delle macchine proveniente dall'autostrada che scorre accanto e la visione del paesaggio esterno alla stazione con i pali della luce e i lunghi landscape di campi della pianura. Ovviamente non si vedono addetti ai lavori, non ci sono biglietterie o bar o negozi, tutto è virtuale.

Salendo invece nello spazio dedicato ai binari e all'attesa dei treni ci si immerge in un luogo ancora più irreale. Un'esplosione di struttura al sopra delle proprie teste. Un'enorme copertura di acciaio bianco e vetro, la luce che entra e crea strisce bianche su tutta la banchina. Nel gergo più comune si potrebbe definirla come una grande serra, il caldo della luce riflessa dalle infinte vetrate crea una sensazione di smarrimento, non è difficile immaginare la temperatura che si può raggiungere in una giornata di sole in piena estate. Si potrebbe quasi paragonare questo spazio al tanto acclamato e non sopravvissuto Crystal Palace di Londra del 1851, un grande palazzo di vetro che non a caso fu costruito e progettato dall'allora noto costruttore di serre Joseph Paxton.


Provocatoriamente verrebbe quasi da suggerire all'architetto di allestire un grande giardino botanico nella parte più esterna delle  banchine ferroviarie, oppure di utilizzare in qualche modo tutto questo calore generato dal riflesso solare a contatto col vetro. Ma forse nell'epoca in cui stiamo vivendo sarà necessario abituarsi a vivere in spazi di questo tipo, la cultura della nostra epoca ci porta ad essere più vicini ad un mondo virtuale e se l'architettura riesce a sembrarlo pur rimanendo reale forse ha raggiunto il suo scopo ed è la cosa più contemporanea che esista.



Il servizio fotografico: